Terra, fuoco, cambiamenti climatici

caivano

L’agricoltura è spesso considerata un tema squisitamente tecnico, noioso e culturalmente disancorato dalla modernità, soprattutto perché, nell’immaginario collettivo, è stata deprivata di tutta la sua nobiltà.  Eppure, soprattutto nelle agende politiche dei movimenti ambientalisti – legati alla terra come fonte d’identità profonda e luogo dell’esistere – dovrebbe essere  centrale: dovrebbe poter penetrare nel linguaggio comune, in ogni discorso. E dovrebbe esserlo non solo perché “palestra di virtù civili”, come vuole Virgilio nelle Georgiche, ma perché le civiltà contadine di tutto il mondo insegnano una condivisione del vivere imperniata sui beni comuni da opporre all’idolatria neoliberista dell’io (basta guardare ai millenari usi civici)  e perché, oggi, l’agricoltura nella sua declinazione convenzionale costituisce una gravissima problematica ambientale con effetti devastanti sulla salute delle persone, sulla fertilità dei suoli e sui cambiamenti climatici.

I contadini risentono ormai drammaticamente delle alterazioni del clima e, con ogni probabilità, sono fra coloro che le registrano prima e con maggior attenzione. Un esempio generazionale e al femminile può ben descrivere l’accelerazione del cambiamento: mia madre ha conosciuto solo la neve del ’56 che a Napoli fu un evento di portata storica; io, al contrario, avevo visto solo un po’ di zucchero a velo sui tetti della mia città. Ma mia figlia, che oggi ha dieci anni soltanto, ne ha invece fatto esperienza già due volte e di entrambe le volte io ricordo la data. In tutti e due casi, soprattutto nell’ultimo, le colture hanno riportato danni e nel 2018 (anche per eventi non riconducibili al gelo) i danni riportati in agricoltura ammontano a 600 milioni di euro.

Alluvioni, siccità, nevicate sono fenomeni che influenzano moltissimo l’andamento dei raccolti. L’aumento progressivo delle temperature globali, nello specifico, comporta  una diversa distribuzione degli agenti patogeni. In soldoni, significa che le colture soggette a stress idrico (troppa acqua o troppo poca) si ammalano di più, cosa che in agricoltura industriale si traduce in un uso ancora più massiccio di fitofarmaci per evitare che le rese produttive calino drasticamente. Sulle conseguenze nefaste dell’uso, razionale e irrazionale, dell’agrochimica mi sono già espressa qui. In questo contesto, vale perciò la pena insistere non tanto sui danni causati in agricoltura dalle alterazioni climatiche, ma principalmente sul processo inverso, ossia su quelli provocati dall’agricoltura al clima.

I gas climalteranti, la cui produzione naturale viene drammaticamente aumentata da quella antropica, sono essenzialmente l’anidride carbonica, il metano, i gas fluorurati e il protossido di azoto. Nel complesso, si ritiene che l’agricoltura convenzionale sia responsabile per circa il 25-30% delle emissioni globali di gas serra perché incide pesantemente sulla produzione della maggior parte di essi. E’ basata, infatti, sull’uso massiccio di combustibili fossili tanto come carburanti dei mezzi meccanici quanto come coadiuvanti e coformulanti degli agrofarmaci. Inoltre, la spropositata fertilizzazione chimica dei terreni – oltre a provocare serissimi problemi d’inquinamento delle falde acquifere – ha determinato un significativo aumento delle emissioni di protossido di azoto. Rivedere, pertanto, la cultura produttiva attuale non è solo un’alternativa possibile, ma una necessità impellente.

C’è di più. Se accostassimo le problematiche ambientali specifiche della Terra dei Fuochi, le alterazioni climatiche e la riflessione fin qui condotta sull’agricoltura, ci renderemmo conto di quanto, tecnicamente e politicamente, tutto si incroci.

L’Italia, in quanto paese sottoscrittore del Protocollo di Kyoto, è tenuta ad elaborare periodicamente l’Inventario Nazionale delle Emissioni (INES) suddividendolo in sei settori: Energia, Processi Industriali, Solventi, Agricoltura, LULUCF (grosso modo consumo di suolo e silvicoltura) e Rifiuti. In tutti questi ambiti, la combustione dei rifiuti presa in esame è esclusivamente quella legale, ossia derivante da incenerimento, cremazione dei corpi e compostaggio. Nessun accenno, chiaramente, alla combustione illegale  dei rifiuti che è invece un fenomeno largamente diffuso non soltanto in Campania, ma in tutto il Paese.

Secondo La Stampa e soltanto fino al settembre del 2017, sono 250 gli incendi dolosi negli impianti di gestione dei rifiuti. In Campania, nella sola estate del 2018, sono state 8 le piattaforme di stoccaggio andate a fuoco: colonne di fumo nero, densissime e imponenti, hanno messo a rischio le colture e la salute delle popolazioni circostanti nel raggio di molti chilometri. Una fenomenologia criminale così radicata, che in Terra dei Fuochi si accompagna ad una vera e propria quotidianità di roghi appiccati ad ogni discarica abusiva di rifiuti, influisce sicuramente in maniera catastrofica sui cambiamenti climatici e dovrebbe essere registrata anche all’interno dell’INES. Varrebbe dunque la pena, per noi ambientalisti, spingere politicamente perché lo sia.

Risulta di certo comprensibile che le popolazioni afflitte da un’ordinaria e locale violenza ambientale non abbiano, probabilmente, sviluppato una sensibilità particolare ad un gravissimo problema globale. Tuttavia, è necessario attivarsi in questa direzione e incrociare sempre la riflessione politica sulla Terra dei Fuochi a quella sul clima. E se, abbandonando per un attimo i Fuochi, ci concentrassimo sulla parola Terra, dovremmo sostenere un deciso cambiamento di passo a favore del modello contadino, l’unico in grado di poter garantire:

  • giustizia ambientale, perché fa a meno dell’agrochimica
  • equità, perché incentrata sui beni comuni
  • economia produttiva di segno positivo, come dimostrano i moderni studi agroecologia
  • un rinnovato senso di umanità perché la spiritualità diffusa in tutte le civiltà contadine è ciò che ci serve per immaginare un mondo diverso

In fondo, dedicare tutto a questa terra è quello che facciamo da sempre: combattiamo per lei, per il diritto di restarci, perché non venga deturpata e perché continui ad avere radici lunghissime e delicate nella memoria di ciascuno di noi. L’agricoltura, dunque, non è solo la storia di questa regione. E’ il futuro radioso che ci attende se sapremo coltivare opportunamente il nostro passato.

Miriam Corongiu

Intervento preparato per Stop Biocidio nell’ambito di Occupy Climate Change, incontro incentrato sulle strategie di contrasto ai cambiamenti climatici e promosso da Marco Armiero, direttore dell’Environmental Humanities Laboratory del KTH Royal Institute Technology di Stoccolma. 

Foto in evidenza: Luigi Viglione

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