Centomila fiori
Il fascino millenario delle api nasce da un livello di cooperazione così organizzato e perfetto da essere diventato riferimento e sogno dell’umanità che vorremmo. Leggere e inconsapevoli della loro generosa natura, le api propagano la biodiversità così necessaria alla sopravvivenza di ogni specie e, ignare del do ut des alla base della mistificazione che permea le nostre relazioni, costruiscono l’habitat del mondo che verrà. A differenza di altri insetti impollinatori, non hanno coscienza del soffio impercettibile che la loro vita costituisce nello spazio e nel tempo e producono più miele di quanto sia necessario alla covata: lasciano così in eredità non solo la perfetta geometria delle loro case ceree e la dolcezza del cibo degli dei, ma la dimensione di una società programmata amorevolmente per il futuro. Quella che noi non siamo in grado di realizzare.
Il rapporto UNEP 2021 (United Nations Environment Program) sottolinea come siano ben tre le crisi planetarie da affrontare: i cambiamenti climatici, l’emorragia di biodiversità e l’inquinamento. Mette anche in evidenza come porre fine a queste crisi sia indispensabile per ridurre la povertà, l’insicurezza alimentare/idrica e le pessime condizioni di salute in cui versiamo. Secondo lo stesso rapporto “i governi dovrebbero includere il capitale naturale nelle misurazioni della performance economica, dare un prezzo al carbonio, eliminare gradualmente i sussidi verso i combustibili fossili e reindirizzare i proventi verso soluzioni a basse emissioni di carbonio” tutti punti essenziali per incamminarci verso la salvezza di un pianeta fustigato dalla nostra presenza e di una natura con cui siamo in guerra da troppo.
Fa particolarmente effetto ritrovare tra questi goals indifferibili anche le governance partecipate, il multistakeholderism tanto sbandierato in ogni agenda internazionale e mai veramente voluto da tutti gli anelli di ogni catena di comando. L’effettivo diritto di tutte le parti interessate (stakeholders) a prendere parte ai processi decisionali è un claim dal basso, il perno intorno al quale ruotano le rivendicazioni di quei cittadini e di quelle cittadine che vivono l’ingiustizia ambientale e sociale come una ferita indelebile, qualsiasi sia il loro orientamento politico e qualunque sia il loro posto nel mondo.
I contadini, per esempio, lamentano da sempre scarsissima attenzione all’agricoltura come lavoro in armonia con la terra contro quell’agricoltura industriale che della terra è solo sfruttamento perché concepita come massimizzazione dei profitti. La sovranità alimentare è il diritto di tutti ad autodeterminarsi attraverso la produzione del cibo buono, sano e giusto, ma rimane una mera enunciazione concettuale nelle mani dei potenti. Al Pre-Summit romano del Food System Summit di settembre, infatti, avuto luogo in questi giorni, avremmo potuto/dovuto assistere allo svolgersi di lavori preparatori aperti davvero ad ogni parte interessata e invece – come denuncia da tempo La Via Campesina – abbiamo potuto solo assistere all’ennesima danza di morte delle corporations legate alla grande produzione, alla grande distribuzione e ai sindacati che inevitabilmente le sostengono snaturando il loro stesso ruolo.
La battaglia per una nuova Politica Agricola Comune, nell’ambito della quale risuona il pesante tintinnio di 350 miliardi di euro, non è andata a buon fine e – come sottolinea Fabio Ciconte dalle pagine di Terra e di Domani – dovremo aspettare il 2027, altri sette anni in cui l’agricoltura aggraverà la crisi climatica, per vedere se l’Europa deciderà di spostare l’asse dal greenwashing ai fatti.
Non li abbiamo altri sette anni.
La grandinata record in Emilia Romagna con bombe di ghiaccio grandi come meloni e il caldo record di questi giorni con temperature più alte anche di 18° rispetto alla media stagionale ci dicono che a fallire non sono state la Comunità Europea, né le buone intenzioni della società civile, ma l’umanità tutta.
L’agricoltura dovrebbe avere il potere di cambiare le nostre vite e noi, mani nella terra, dovremmo avere sempre la possibilità e il diritto di ricongiungerci a ciò che siamo stati, di dissipare le nostre inquietudini e di ritrovare la nostra identità riallineandoci con gli equilibri naturali. Dovremmo avere il tempo e il modo di sentirci magnifiche piante, felci lussureggianti nelle giungle equatoriali, modeste, ma luminosissime ginestre alle falde del Vesuvio oppure erica bianca nelle piane scozzesi così vicine al cielo. Potremmo essere api e, con infinita pazienza e alacrità, toccare centomila fiori in un volo soltanto per diffondere la speranza e la concretezza della vita, costruire case che non siano di carta e creare abbondanza, non fame, né infelicità, per tutti gli esseri viventi.
Potremmo. Dovremmo.
L’agricoltura rimane invece terreno di scontro per chi gareggia a essere più potente, per i rapporti di forza e per una visione patriarcale del tutto anacronistica della terra come del mondo. Senza nutrire, dopo il covid e nel mezzo del torpore che ha portato, particolari speranze per il futuro della nostra specie, non sento oggi di poter investire emotivamente e politicamente sulle api come ispirazione e modello.
I questi giorni di sofferenza in cui facciamo la conta dei danni e aspettiamo, tremando, quella dei morti per il caldo fuori misura, mi basterebbe essere uno di quei centomila fiori: sarà anche fede nell’effimero e quindi intima consapevolezza della mia impotenza, ma per un attimo sarò stata baciata da una favola e, sempre e solo per un attimo, mi sarò sentita innocente e viva nell’infinito deserto che c’è.
Condivido pienamente l’amore per queste meravigliose creature. Come scrivi, magnificamente, le api dell’alveare vivono come un unico organismo ed è questa la loro forza e bellezza. Un modello di società per noi.
Cara Ida,
grazie davvero per aver commentato. Sarebbe in effetti molto bello poter assomigliare un po’ di più alle api. Ne avremmo davvero bisogno per salvare la nostra specie.