Liberandoci, libereremo

io e giorgia

Non dovrebbe essere permesso ai treni veloci di attraversare le campagne e interferire con il canto degli uccelli.

Sono arrivata qui, nel mio orto, dietro la spinta di un desiderio più grande di solitudine e riparo, per dedicare a me stessa almeno una manciata di secondi in una giornata -l’ultima dell’anno – che mi tormenta da ieri.

È tutto spoglio, disturbato dal cavalcavia che gli alberi denudati dall’autunno non riescono a nascondere e i cani che mi fanno festa, inconsapevoli di me e del treno, non leniscono il mio senso di abbandono. Siedo triste, sulla panca di legno scoperchiata e priva del telo protettivo, a sentire sul viso un piccolo calore, un detrito di sole, mentre provo a concentrarmi su questo ritaglio di vita che ho tra le mani.

Mi sento stanca e mi sembra sia giusto, dopo due mesi di lavoro nell’orto a perdifiato e l’enorme mole di lavoro di cura che ho dovuto gestire mio malgrado. Vorrei vivere questa giornata diversamente, divertendomi e trattandomi come l’ospite più desiderata invece di continuare a sgobbare, cucinare, rispondere amorevolmente a tutte le richieste, comporre diplomaticamente tutti gli scontri. Vorrei davvero avere due giorni di noia e non due giorni di lavori forzati ai quali gli obblighi familiari mi impediscono di sottrarmi. Quante di voi si sono sentite e si sentono così? So di dare parola a moltissime donne che vivono la dicotomia sentimentale tra il donare ricordi robusti ai quali, un giorno, i figli si aggrapperanno e la voglia costante di scappare via per vivere le feste in quanto “feste”.

Seduta al pallore dell’inverno e reagendo al silenzio, capisco di aver sempre provato angoscia nel vivere il lavoro di cura della casa e (entro certi limiti) della famiglia perché per me è stato molto a lungo soltanto una privazione, la rinuncia forzata al tempo che – una volta terminato il lavoro cosiddetto per il mercato – avrei potuto dedicare alle mie passioni, qualunque esse fossero, all’approfondimento di me o al riposo. Anche oggi che posso definirmi più consapevole delle dinamiche che scaricano perlopiù sulle donne la fatica della cura, è sempre complicato relazionarmi al periodo delle feste e, più in generale, alle faccende domestiche, alla cucina e alle mille piccole e grandi esigenze della gestione familiare. Di fondo vivo psicologicamente male l’ambivalenza valutativa di cui è permeato socialmente questo lavoro (ritenuto fondamentale e infimo al tempo stesso) così come vivo con disagio la mia difficoltà di donna a ritenermi soggetto destinatario di diritti e, in questo ritaglio di tempo rubato, di un diritto in particolare: quello a vivere la cura anche come una grandissima seccatura, una palla al piede e una catena così pesante da potermi trascinare a fondo.

Considerata essenziale per gli equilibri collettivi, la cura nei fatti non ha nessun rilievo politico e culturale. Quante volte ripetiamo che si da tutto per scontato? Che siamo invisibili e che dovremmo essere pagate? Ma aldilà del riconoscimento pubblico e personale che desidereremmo, il problema è (anche) profondamente intimo e ha radici nella concezione che noi stesse abbiamo o non abbiamo costruito nel tempo del valore da attribuire alle nostre singole esistenze e in quello da attribuire al nostro ruolo dentro casa/famiglia.

bell hooks – che leggo in questi giorni a scopo ricostituente – nel suo “Elogio del margine” (antologia di testi prodotti tra il 1991 e il 1998) scrive un capitolo meraviglioso dal titolo “Casa. Un sito di resistenza”. La hooks parla di nerezza e patriarcato fuori e dentro le baracche prima, le abitazioni poi, delle donne che hanno subito la schiavitù e l’emarginazione razziale, spiegando quanto sia stato importante e misconosciuto il loro tentativo, attraverso la cura, di non lasciarsi culturalmente e mentalmente “occupare” dal suprematismo bianco. Le loro case erano focolai di resistenza in cui potersi ritrovare aldiquà dei binari che le separavano dalla città dei padroni, vivibile solo in quanto luogo dei privilegi altrui e della loro inferiorità.  Nelle loro case ritornavano ad essere se stesse e – anche se il sessismo non le avrebbe risparmiate nemmeno lì – costruivano le possibilità affettive e culturali in cui altre giovani donne avrebbero potuto autodefinirsi, crescere consapevoli e, alla fine, ribellarsi.

Ritornare ad essere se stesse per ribellarsi.

Ho concepito fin dai primi istanti L’Orto Conviviale come la scelta ragionata di contestualità tra casa e politica, offrendo sempre uno spazio di riposo e riflessione a chiunque ne avesse bisogno, aprendo le porte al mondo ecologista, femminista e contadino seguendo semplicemente l’onda del mio profondo desiderio di crescere con mia figlia in un climax intellettuale rigenerativo. Non ho mai distratto forze verso il modello del salotto culturale: volevo praticare una forma di resistenza trasformativa in cui coinvolgere chiunque.

La mia casa e la mia terra non sono mai state neutre, ma fortemente partecipate e partecipative e dentro questi confini così labili, frangibili da tutti, ho sviluppato la mia declinazione di agricoltura e di femminilità. La mia. E’ una vittoria enorme per me.

Contro la mia stessa educazione che mi voleva straordinaria, ma nell’ordinarietà delle relazioni di potere, affermata professionista e/o instancabile organo riproduttivo, sono riuscita con moltissima fatica e inizialmente senza comunità di supporto a scrollarmi pian piano di dosso l’idea che dovessi essere un ingranaggio perfetto in una macchina infernale. Sono assolutamente sghemba e non nell’accezione commerciale che si da della diversità: sono più verosimilmente un ammasso confuso di desideri, pratiche, studi, martiri ed esaltazioni. Cresciuta con l’idea monolitica di dover eccellere in un settore e in uno soltanto (la ballerina, l’avvocato, l’astronauta) ho vissuto la mia curiosità e il mio eclettismo come un difetto, scoprendo solo tardi che io coincido con le mie necessità intellettuali e fisiche, non con le esigenze del mercato.

Il mio percorso politico sui territori, di conseguenza, non è stato mai semplice e nemmeno nelle organizzazioni strettamente ecologiste sono riuscita a riconoscere pienamente il suono della mia voce. Molti movimenti sono ancora attraversati da scelte strategiche che non tengono conto dei tempi delle donne o delle loro esigenze, così come sacrificano sull’altare del buon esito politico il modo in cui ci sentiamo – uomini e donne – in relazione alle tragedie in cui siamo immersi. Nel tentativo di essere riconosciuta dagli altri, di ribellarmi e di trovare un posto che non fosse quello che la mia famiglia e la società mi avevano assegnato, ho dimenticato di attribuirmi un valore.

Ritengo, ad oggi, di aver potuto imparare a percepire me stessa solo quando da me stessa ho smesso di fuggire, quando pur amando molto la lotta per la giustizia ambientale che mi ha forgiata, mi sono concessa di scendere alla mia fermata. Ho dovuto. Senza smettere di rimboccarmi le maniche: “coloro che ci dominano e ci opprimono sono in posizione di massimo vantaggio proprio quando non abbiamo nulla da dare a noi stesse, quando ci hanno sottratto a tal punto la nostra dignità, la nostra umanità, che non ci rimane nulla, nessun “focolare domestico” dove riprendere possesso di noi stesse”

In questo autoritratto dipinto a tentoni, il focolare domestico ha avuto e continua ad avere per me un ruolo determinante. Non è più lo spazio sessista in cui essere rinchiusa, ma lo spazio di liberazione in cui praticare la mia rivoluzione.

La hooks, sostenitrice della teoria secondo la quale liberazione razziale e patriarcale devono essere due tensioni da unificare, scrive anche “non è un caso che il regime di apartheid sudafricano attacchi e distrugga sistematicamente gli sforzi della nostra gente per costruirsi un sia pur precario focolare domestico, quella piccola realtà privata dove donne e uomini neri possono ricrearsi e ritrovare se stessi”.

Oggi, privarci della terra accrescendo le economie di scala, devastandola, rendendola appannaggio solo dei grandi investitori e svuotandola del significato culturale che ha sempre avuto in tutte le civiltà, tranne che in questa nostra del wasteocene, ha esattamente lo stesso scopo: disperderci e privarci di un luogo in cui praticare la resistenza, in cui ritrovarci e autodefinirci. Oggi, noi che abbiamo il privilegio di avere una casa e di abitare l’emisfero più fortunato, non possiamo esimerci dal farne un avamposto di cambiamento e di praticarvi all’interno la nostra liberazione e quella degli altri.

Né quello di bell hooks, né sommessamente il mio, sono perciò un elogio della famiglia tradizionale, né della figura materna o matriarcale. Al contrario. Un focolare domestico è tale se è capace di accogliere ogni differenza e di comporla nell’accettazione e nell’empatia, lasciando spazio alle esigenze di tutti e, in primis, alle nostre. Un focolare domestico è tale se passiamo dalla maternità alle genitorialità e se decliniamo la cura come una possibilità e un dovere da condividere con tutti.

Ripensare dunque il nostro ruolo all’interno delle nostre famiglie partendo da una comprensione divergente per noi stesse, per quelle che siamo e soprattutto per quello che vorremmo e possiamo ancora essere, significa non solo riconferire dignità a quello che facciamo, ma trovare un pensiero attivo utile a sopportarne il peso. Significa non solo politicizzare (quindi universalizzare) la rilevanza della cura, ma – nel farlo – costruire uno spazio fisico in cui riconoscerci e avere privacy, ritagliarci tempo libero per ciò che amiamo fare, coltivare l’ebbrezza, la follia, l’arte, la politica, l’amore diverso, mettendo da parte le convenzioni sociali e le assurde aspettative che – talvolta – emanano solo dal modello patriarcale in cui siamo state cresciute.

Significa, in altri termini, cercare di assomigliarci di più e di amarci a dispetto di tutto, per come siamo: uniche nel nostro “genere”.

Liberandoci, dunque, libereremo.

rosaSono qui, nel mio orto, per riconciliarmi con te, Madre. Vorrei stendermi nel prato freddo e trovare il tuo perdono per quello che ho fatto e per quello che non ho fatto. Vorrei essere in grado di sapere tutto di te, di abbracciare con la conoscenza ogni tua foglia e ogni tua radice, vorrei vivere solo con te, in mezzo a te, nella nostalgia (dolore del ritorno) che sussurri ad ogni mio passo. Vorrei conoscere ogni verso e parlare la tua lingua, ma nell’infinita bellezza che ostenti, riesco solo debolmente ad ascoltare.
Sei tu mia madre, io ti sento.

Miriam Corongiu

2 commenti

  • Domenica De Falco

    Una bellissima e interessante testimonianza, che trovo lucida e intelligente.
    La rivoluzione dall’interno e a partire da spazi e luoghi che normalmente sono considerati di chiusura e/o deputati alla conservazione senza cambiamenti.
    Davvero un contributo originale e interessante. Complimenti!

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