Il caffè sospeso
Napoli, fredda mattina di marzo, le otto e un quarto. Arrivo in centro assai in anticipo rispetto al mio orario di lavoro. E insieme a un caro amico e collega ci concediamo un caffè in una delle più belle caffetterie di Napoli. Mentre sorseggio dalla tazzina, fino in fondo, pensando che questi pochi minuti sarebbero stati l’ultima nota di colore prima del grigiore dell’ufficio, noto una piccola locandina: “Qui si può lasciare un caffè sospeso”. Mi chiedo cosa sia: pur essendo napoletana e frequentando il centro della città da sempre, non ne ho idea. Me lo faccio spiegare. Affascinata.
Nel dopoguerra, quando davvero per molti era un lusso potersi concedere un caffè al bar (in genere – racconta Eduardo De Filippo – il caffè si comprava fresco, perché costava meno, e dopo l’“abbrustulatura” si tostava in casa, profumando i vicoli napoletani), chi era più fortunato pagava un caffè per sé e un altro per chi sarebbe entrato dopo nel bar. Era – dice Luciano De Crescenzo – “un caffè offerto all’umanità”. Perciò c’era sempre chi entrava nel locale e chiedeva “C’è un sospeso?”.
Navigando poi sul web, scoprirò che questa pratica non soltanto ogni 10 dicembre viene ricordata da diversi anni in moltissimi bar cittadini, ma che è diventata anche celebre in tutto il mondo, dove, a seconda di dove ci si trovi, è possibile chiedere un’”empanada pendiente” o la tradizionale tazzina di caffè già pagata.
Lascio allora un caffè sospeso con grande gioia: mi sembra, in un grigio giovedì mattina, un semplice, ma fiducioso gesto di condivisione coi miei simili. Non è certo il costo del mio espresso a fare la differenza, ma sapere che una tazzina di caffè possa tener alta la speranza di sentirsi fraternamente connessi agli altri, che non serve conoscere la persona che berrà il nostro “sospeso”, né il gestore del bar, perché si potrà aver fiducia nel fatto che nessuno approfitterà della nostra buona fede. Un tempo era un punto d’onore riservare il caffè sospeso a chi davvero ne avesse bisogno e un fatto di lealtà chiederlo solo se necessario.
Se Pino Daniele vedeva nella nostra “tazzulella ‘e cafè” una variante del tirare a campare, del non voler vedere come unica difesa contro gli indifendibili, contro imbrogli e mistificazioni di quelli che, senza orgoglio né onore, distruggevano (e distruggono) la città, stamattina un caffè è diventato il simbolo di un’umanità che si specchia nell’onestà e nella fiducia reciproca, respingendo l’abbrutimento dei cuori e l’individualismo legato al produttivismo.
È un caso, ma nel bar adesso suona un’antica canzone napoletana, autentica poesia. Mi ricorda che nel profondo di ogni essere umano, per quanto amara e spessa possa essere la sua corazza, può scoprirsi un po’ di “zucchero” e che questo, girando girando, col cucchiaino giusto, può arrivare fino alle labbra e addolcire la vita. Zucchero che stamattina arriva fino a me. Grazie a un solo, semplice, caffè sospeso. E perfino l’ufficio mi sembra un posto migliore.
Miriam Corongiu