La plastica sa. E parla.
La plastica può prendere vita. E svariate forme di vita.
Possiamo trasformarla in altri oggetti e continuare ad usarla, si sa. Oppure, farla diventare un continente e farle generare nuovi ecosistemi. E questo si sa già meno. Ma pochi intuiscono che possiamo perfino farla parlare e farle dire NO.
Al CNR (Istituto per i Polimeri, Compositi e Biomateriali) di Portici, nel Napoletano, si sperimenta, per esempio, un insolito versante del riutilizzo della plastica: un “riciclatore incentivante”. E’ una macchina capace di compattare e di trasformare la PET, attraverso una stampante 3D, in oggetti di artigianato locale, come decorazioni per i presepi o cornetti portafortuna.
Anche un’idea originale come questa e, per il momento, di limitata applicazione, può aiutare quando si parla di plastica. Perché la plastica si fotodegrada, in mare si smembra grazie anche al movimento meccanico delle onde, ma non si distrugge mai del tutto. È eterna. Prova ne sono le “Isole di Plastica”, che si formano grazie all’ammassarsi dei rifiuti in zone di relativa quiete: le correnti marine si incontrano e creano punti di stasi.
Secondo alcuni studi pubblicati nel corso del 2014[1], l’isola nota ai più, la Great Pacific Garbage Patch, nel solo Pacifico Orientale raggiunge il peso minimo di 21.290 tonnellate, cioè il peso di 132 Boeing 747 o di 120 balenottere azzurre, il più grande animale esistente.
Miliardi di minuscoli frammenti plastici, perciò, si conglomerano fino a raggiungere l’estensione di veri e propri nuovi continenti. Ma non solo. Imitando il plancton, diventano cibo per le specie ittiche entrando così anche nella nostra catena alimentare, con conseguenze non ben definite scientificamente, e generano, addirittura, nuovi ecosistemi. La Plastisfera è, difatti, l’insieme delle comunità microbiche che popolano i rifiuti plastici in mare e ancora non è chiaro in che modo interagisca con fauna e flora marine.
Sbaglieremmo, però, a pensare che le Garbage Patches siano solo una realtà oceanica. Già nel 2010, la spedizione denominata “Expedition Med” ha stimato, tramite rilievi effettuati su 40 stazioni analizzate a largo di Francia, Spagna e Nord Italia, che il peso dei detriti di plastica, entro 20 cm dalla superficie dell’acqua, è di circa 500 tonnellate.
L’estate scorsa, un monitoraggio di Goletta Verde e Accademia del Leviatano su 1700km di “mare nostrum”, ha evidenziato una situazione oltremodo preoccupante[2], tale da farci ipotizzare, in un futuro non troppo lontano, che anche da noi possa formarsi un’isola in plastica e che non sia astruso sostenere che la composizione stessa delle nostre sabbie si stia conseguentemente alterando. Come si può facilmente intuire, ripulire disastri di tale portata significa affrontare costi immani: si stima (Università dell’Oregon) che sia necessaria una quantità di energia, quindi ancora una volta petrolio, pari a 250 volte la massa dei rifiuti.
La soluzione, come sempre, è a monte del problema. Produrre meno rifiuti, smaltirli correttamente e, quando possibile, riutilizzarli. La plastica parla da sé.
Nei luoghi di camorra (Casal Di Principe, Casapesenna, San Cipriano d’Aversa), il buio dell’inverno è stato rischiarato da “Luci di Speranza”: 50.000 bottiglie di plastica, raccolte da associazioni, volontari e scuole, sono state riciclate e trasformate in opere d’arte da Giovanni Pirozzi. Contro le imponenti e dispendiosissime luminarie delle grandi città turistiche, le Luci di Speranza hanno dato coraggio a territori sviliti dalla malavita e martoriati da roghi e tombamenti di rifiuti tossici.
Un grandioso presepe ha ingentilito la piccola piazza di Casal di Principe con i suo cigni di PET e ci ha fatto accarezzare il sogno di un esistere differente, una vita dove perfino la plastica si anima e diventa il simbolo del riscatto. La plastica ha parlato e ha detto NO. Ed è stato il NO più commovente, la risposta più silenziosa e più assordante al sistema che dei rifiuti fa merce e della vita una nullità.
Si può vivere diversamente, la plastica lo sa.
La scelta, ovvio, è sempre la nostra: possiamo inondare il mondo di spazzatura e morirci dentro. Possiamo alterare tutti gli equilibri naturali e portare all’implosione il nostro pianeta. Oppure, possiamo provare a vederla da altre angolazioni. Possiamo immaginare e creare una realtà che ci somiglia di più.
E per renderla migliore, possiamo provare a farli parlare i rifiuti. Non ci vuole così tanta fantasia. Ascoltandoli bene, ci direbbero molte cose intelligenti.
Miriam Corongiu
[1] dalla Sea Education-Woods Hole Oceanographic Institution e dalla School of Oceanography dell’ Università di Washington
[2] nell’Adriatico ci sono 27 rifiuti galleggianti per kmq, in maggioranza plastica; 26 nel Tirreno, con altissima concentrazione (150/kmq) lungo la costa di Castellammare di Stabia; meglio il Mar Ionio, favorito dalla sua posizione geografica.