Halloween o Samhain?
Sono solita, da diversi anni ormai, festeggiare Halloween come si conviene. Non tacciatemi di esterofilia, non pensate che il mio sia un cedimento alla commercializzazione dell’inutile.
Nella realtà (e non certo nella pubblicità),Halloween è un ponte tra ciò che abbiamo dimenticato e ciò che ci aspetta: è la commemorazione del mondo dell’anima, della dimensione spirituale che non coltiviamo più e della Natura che finalmente, dopo le fatiche dell’estate, si prende il suo meritato riposo. E soprattutto, non è solo una festa statunitense.
Samhain (Sowin) era l’antica festa celtica della cesura più importante dell’anno: la celebrazione della fine e dell’inizio per ricordare che la vita e la natura sono un cerchio. La terra da, la terra prende. Nello sfumare dell’estate nel rigore dell’inverno, anche il confine tra la vita e la morte diviene sottile al punto tale da consentire una qualche forma di passaggio tra una dimensione e l’altra e le civiltà rurali si preparavano ad accogliere il gelo della nuova stagione e a ricordare l’oscurità della morte.
Le rape irlandesi e scozzesi, divenute poi zucche nel continente americano, venivano intagliate perché accogliessero la luce di una fiammella a rischiarare il regno dei morti (Jack o’Lantern). I bambini, per ingraziarsi le anime dei familiari defunti, venivano spediti in giro per le case a chiedere frutta e dolci, pena un’innocente maledizione.
In Sardegna, la festa ha molti nomi, ma tratti similari: Is Animmeddas, Su mortu mortu, Su Prugadoriu o Is Panixeddas. I bambini girano per le case chiedendo un’offerta “pro su ‘ene ‘e sas ànimas”, “per il bene delle anime”[1]; si intagliavano le zucche e si accendevano lampade per ogni defunto della famiglia.
In Sicilia, si dice che tra il 1° e il 2 novembre i defunti tornino dall’aldilà e quindi ad Erice escono dalla Chiesa dei Cappuccini, mentre a Partinico indossano un lenzuolo e portano una torcia accesa percorrendo la città. Ma non solo: i morti rubacchiano dolci (pupi di zuccaru, nucàtuli, crozzi ‘i mottu e martorana) e giocattoli per regalarli poi ai bimbi meritevoli della propria famiglia[2].
In Puglia, a cena, si usa imbandire la tavola per i morti che si ritiene tornino per un giorno, si decorano le zucche chiamate “cocce priatorje” e i ragazzi cercano “l’aneme de muerte”, cantando un antico stornello che convinca le donne ad aprire le case e a donare dolci, castagne e altre leccornie[3].
In Messico, durante Los Dias de los Muertos, le piazze si riempiono di bancarelle che offrono i dolci della festa e vengono ornate di arancione, il colore del chempasùchil, la calendula degli Aztechi simbolo della terra, dei cari perduti e delle processioni fino ai luoghi sacri[4].
Quindi, chiamiamola pure Halloween questa festa così dileggiata, ma è solo un rito di passaggio tipico di tutte le culture contadine, legate alla semina, al raccolto e al ciclo della vita.
A casa mia, seminiamo le zucche in primavera e le raccogliamo alla fine dell’estate.
Se il mio orto mi ha dato buoni frutti, riesco ad avere anche quelle morbide, quelle buone per l’intaglio, che ad Halloween si trasformano in tante buffe facce. Preparo da sola, spesso con materiali riciclati, le decorazioni per la festa e le mie amiche sfornano fantastici dolci a tema che sono la gioia dei nostri bimbi.
È la mia personale festa dell’autunno e della terra stanca, che così tanto mi ha dato d’estate e che merita di essere celebrata anche nel riposo, promessa di primavera.
È la mia personale festa della terra che accoglie chi ho amato: la festa del rosmarino che ho piantato accanto alla tomba di mio padre e che, come in un racconto di Erri De Luca, immagino lo accarezzi delicatamente con le sue radici.
Ma fuori da qui, dal nostro mondo fatto di cose semplici e di ritrovato senso, Halloween è la festa del diavolo, del marketing, delle discoteche, del terrore cinematografico.
Buona parte della Chiesa cattolica si scaglia contro le nuove usanze pagane, a Perugia una studentessa inglese viene uccisa dopo una festa, le città del divertimento gareggiano in intrattenimenti sempre più orrifici e i negozi si vestono d’arancio e viola per vendere di più.
Sconnettendoci dal nostro passato, ci siamo catapultati in un rovesciamento totale del senso delle cose e abbiamo disimparato cosa siamo e da dove veniamo. Senza radici, siamo solo sterpi.
Perfino nelle fiabe classiche luce e tenebra si armonizzano e spiegano una le ragioni dell’altra. Ma le fiabe non si raccontano più e non impariamo più a riconoscere e a convivere saggiamente con la naturale oscurità della nostra anima . E così teschi, sangue, zombies, vampiri, cimiteri, serial killers…tutto va bene nell’immane calderone del moderno “panem et circenses”.
Stravolgiamo le stagioni e così anche i riti ad esse legati; pensiamo di essere padroni del nostro tempo e invece ci misurano in Rounds Per Minutes; dimentichiamo che la morte è quanto di più naturale ci sia in vita e così la esorcizziamo facendola diventare un fenomeno da baraccone.
Come direbbe Jack lo Squartatore : “Benvenuti all’inferno, signori miei”.
Articolo pubblicato su Decrescita Felice Social Network