L’epicentro del Covid19
La lettera scritta dai medici dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, il fulcro della pandemia da Covid19, è straziante. Vergata nel cuore di un conflitto mondiale da un pugno di chirurghi alle prese con gli scarsi rifornimenti e gli sguardi smarriti dei soldati agonizzanti, ci espone alla fredda lucidità di chi rischia di morire per dovere e di chi continua, nonostante le bombe e le sirene, ad operare. Una lucidità, questa, che consente agli “eroi” moderni non solo di andare avanti ogni giorno nell’esercizio della loro professione, ma anche di analizzare che cosa accade aldilà dell’esorbitante numero di vittime, della solitudine che questa peste impone a chi sopravvive e a chi muore, e dell’enorme impatto sociale a cui dobbiamo prepararci.
Ivan Illich, in un memorabile saggio su “La convivialità” del 1975, dipinge la società contemporanea come la società in cui la misura non è la città, ma la prigione: scuole, istituti di pena e ospedali sono tutte strutture super-centralizzate in cui, facendo credito solo ai ricchi, l’istruzione, la libertà e la salute sono ridotte a merce. La macchina avrebbe dovuto servire l’umanità. L’umanità si è invece acconciata a diventare strumento della sua stessa invenzione, ripetendo carenza, mortificando il rapporto conviviale sempre nuovo, autonomo, libero, opera di persone che vivono immerse nella collettività e ad essa funzionali.
Non è lontana da questa tesi quella dei coraggiosi medici bergamaschi, secondo i quali i sistemi sanitari occidentali sono stati costruiti intorno al concetto di patient-centered care , ossia intorno al paziente, mentre un’epidemia, al contrario, richiede un community – centered care, un approccio di comunità. Nella lettera dal fronte pubblicata il 25 marzo sul “New England Journal of Medicine Catalyst Innovations in Care Delivery”, dal titolo “Nell’epicentro di Covid-19”, gli specialisti di anestesia e terapia intensiva dell’ospedale lombardo, ormai in ginocchio, scrivono a chiare lettere che la sanità diffusa, cioè disseminata in una molteplicità di servizi offerti alla comunità, avrebbe evitato che gli ospedali diventassero lazzeretti e il personale sanitario un’unica orda di untori. Eppure, la legge italiana lo prevede.
Nel 2012, in ottemperanza alla Legge Balduzzi, le Aggregazioni Funzionali Territoriali (AFT) dalle 8 alle 20 e le UCCP (Unità Complesse di Cure Primarie) di notte e nei festivi, avrebbero dovuto ridurre l’uso improprio del Pronto Soccorso, garantire un’effettiva presa in carico del paziente cronico con bisogni assistenziali complessi, “contribuire all’integrazione tra assistenza sanitaria e assistenza sociale a partire dall’assistenza domiciliare”. Se questa riorganizzazione molto meno ospedalocentrica fosse stata capillarmente attuata, cure a domicilio, cliniche mobili, approvvigionamenti adeguati forniti ai paucisintomatici o ai convalescenti, avrebbero garantito non solo una maggiore sopravvivenza, ma – avrebbe detto Illich – anche una maggiore equità. Lo Stato non avrebbe lasciato indietro nessuno, non avrebbe costretto i medici a scegliere chi aiutare, chi assistere nella solitudine, chi consegnare al futuro. O alla morte.
Ma cosa aspettarsi da questa economia dello sfruttamento che ha sacrificato l’intero pianeta al capitale e che iperburocratizzata, troppo medicalizzata, ingiusta, militare, patriarcale, infinitamente competitiva perfino negli istituti di cura, non trova rimedio a sé stessa? Al principio dell’era industriale la riduzione della morbilità e della mortalità sono state spiegate principalmente con il miglioramento delle condizioni igieniche, con le modifiche del habitat e dell’alimentazione, non direttamente con l’evoluzione delle scienze mediche. Ora che, al contrario, abbiamo a disposizione strumenti scientifici avveniristici, conoscenze formidabili e perfino leggi che (se applicate) avrebbero messo in condizione il SSN di reggere il colpo molto meglio; ora che abbiamo piagato questa terra con l’ossessione della produzione inducendola a partorire letalità per ogni dove, ora che ogni matrice ambientale è ormai tragicamente compromessa, COSA ci guarirà? COME fare fronte ai problemi epocali che le future pandemie porranno? CHI, quale soggetto politico, farà da traino e in quale direzione?
Il coronavirus è l’ebola dei ricchi, si aggiunge da Bergamo, l’epidemia venuta a dirci che anche laddove ci si vanta di vivere meglio, in realtà, si è sbagliato tutto. Lasciamo che a portare il peso di un inestricabile groviglio di scelte mancate siano i magistrati, i medici, i contadini, i poveri, gli operai, un esercito di eroi mandati avanti a morire e osannati – o pianti – mentre cadono senza giustizia. Lasciamo nell’indigenza le fasce già deboli che, isolate e precarizzate ancora di più, andranno ad ingrossare le fila del nero e della malavita non perché non possiamo varare manovre sufficientemente poderose, ma perché semplicemente ci servono così. E lasciamo che le multinazionali e i grandi della globalizzazione calino la loro mannaia sui piccoli che sono la speranza della Terra.
Non è, dunque, Bergamo l’epicentro del Covid19. Lo è il mortifero sistema di sviluppo che abbiamo inventato per affrancarci dalla durezza e dalla sofferenza e che, nella sofferenza, ci fa rimpiombare ogni giorno del suo dominio.
Miriam Corongiu
Foto in evidenza: Il Fatto Quotidiano