Aldo dice 26 x 1
Aldo Cervi non si fermava mai.
Le campagne della Bassa Reggiana degli anni ’40 richiedevano ai mezzadri dedizione assoluta e un lavoro durissimo, incessante, ripagato solo con l’ingiustizia: ti spaccavi la schiena con le vacche, il grano, le giornate infinite e una stanchezza che non conosciamo più, ma tra le annate magre e la protervia del padrone, era la fame a mangiare te. Terzo di sette fratelli e due sorelle, braccia forti e volontà di ferro, Gino dei Ruban (così lo chiamavano) aveva nella testa un vortice inarrestabile di pensieri sempre pronti a rendergli chiara la strada e un cuore svelto, in ogni momento, a individuare quella forse meno battuta, ma di certo la più giusta.
Sapeva parlare, lui. E sapeva anche convincerti. Sorrideva, insisteva, ed era fatta: non si resisteva a quel matto del Gino che con i libri – quelli “rossi” come i Campi dai quali veniva – costruiva pian piano il mondo intorno ai suoi fratelli, un mondo in cui dalle catene ci si doveva liberare e in cui il futuro era sempre una spanna di là dalla porta del fienile. Gli annali della Resistenza srotolano silenziosi il nastro in bianco e nero di una famiglia poverissima, ma piena di risorse che, grazie a tecniche agrarie nuove come il livellamento dei terreni introdotto dai Cervi per primi, riuscì ad affrancarsi dalla mezzadria con la conoscenza e un pizzico di follia. Matti, dunque, dicevano in paese. Contadini di scienza, disse invece il presidente Einaudi una manciata d’anni dopo, quando sette medaglie al valore, rilucenti sul petto di papà Alcide, furono tutto ciò che rimase dei fratelli Cervi.
Nel 1943, infatti, la grande pagliacciata del fascismo volgeva al termine, ma senza rinunciare al suo lato tragico e a una strage epocale. Aldo, che la dittatura l’aveva sempre avversata perché, nonostante tutta la roboante propaganda di segno opposto, il Duce aveva soffocato nel sangue le rivendicazioni dei contadini ridotti alla fame, aveva già cominciato da tempo a dire basta. Instancabile sulla sua bici, correva da un paese all’altro per leggere di nascosto, portare cibo o vestiti, infiammare i cuori parlando di libertà. La resistenza non fu subito montagne e fucili e, soprattutto, non fu subito un movimento di massa.
La resistenza fu studiare quando gli altri contadini si davano solo alla zappa. Fu fare agricoltura tra la gente e per la gente quando ognuno badava ai fatti propri. Fu non fare la tessera dei fascio quando tutti si vestivano di nero. La resistenza fu seminare mentre i gerarchi mietevano e fu aprire ai disertori, agli esuli, ai ribelli, quando tutti facevano la spia.
Le armi vennero dopo, quando fu chiaro che i nazisti e i fascisti della Repubblichina non si potevano mandare via che a calci e quando i processi sommari, le torture inaudite nelle carceri e la barbarie per le strade crebbero fino a detonare. Aldo, Antenore, Gelindo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore – che allora era poco più che un ragazzino – non si tirarono certo indietro. Non ebbero scelta di fronte a quella vita che da principio scorse in timidi rigagnoli e diventò poi, dopo tutti quegli anni di dissenso, un fiume in piena. Non ne ebbe nessuno che con chiarezza avesse visto nel fascismo schiavitù, stupidità e quella volgarità estetica che oggi è palese a tanti, ma che allora educava all’obbedienza cieca.
Così, una notte, li presero. “Noi qui – scrisse Aldo a Bianca, nome in codice di una compagna partigiana – siamo pieni di coraggio, non disperiamo mai, sicuri di vincere anche se dovessimo morire”.
Il 28 dicembre del 1943, solo una settimana prima che le bombe alleate distruggessero il carcere di San Tommaso dov’erano rinchiusi e consentissero la fuga dei prigionieri, sette fratelli “di pane e miele” furono fucilati al freddo e, cadendo, diedero vita a un mito.
Aldo aveva solo 34 anni. Gelindo, il maggiore, 42. Ettore, l’ultimo, appena 22.
Ma, disse Calamandrei, dopo un raccolto ne viene un altro. Quel matto del Gino lo si può ancora veder venire giù dalle montagne a consegnare scarpe ai partigiani: sono tanti, ogni giorno, quelli in cammino verso la giustizia. Sono tanti quelli che non dimenticano e che si inorgogliscono al nome di sette fratelli uccisi perché seppero scegliere di non abbassare la testa.
E’ sempre necessario leggere, arare la terra, preparare un piatto di pastasciutta per gli altri e saper riconoscere le forme del fascismo che viene. Perché il fascismo non bussa alla nostra porta presentandosi a viso aperto: si nasconde in un crocifisso sbandierato in tv, nel disprezzo verso i migranti o nell’apprezzamento delle donne che sappiano stare “un passo indietro”. Sopravvive nella convenienza indifferente di chi ama gli orticelli in luogo delle pianure aperte, nella strafottenza dei pochi che amano le altezze vertiginose del potere senza guardare mai in basso e che poi, se in basso guardano, vedono solo una moltitudine di scarafaggi, non vite preziose nelle loro diversità. Il fascismo è imbelle per definizione. La resistenza, per definizione, è audace.
Quel coraggio di affrontare la paura, per fortuna, appartiene ancora a tanti e Aldo, quelle scarpe da partigiano, non le ha mai tolte. Non si fermava mai, non si è fermato più.
A 75 anni dall’insurrezione che ci rese liberi, ora e sempre, Aldo dice 26 x 1.
Miriam Corongiu
La pianura dei sette fratelli, Modena City Ramblers