LA TRANSIZIONE AGROECOLOGICA LIBERA E PENSANTE
Ho un modo molto personale di guardare alla campagna. Non riesco mai a provare quel particolare abbandono dettato da un’idea di natura altra, incontaminata e forse un po’ algida, che sembra beare tanti quando si ritrovano in luoghi lontani dal vivere moderno. Non c’è niente che si possa definire lontano o altro da noi e anche se, nella comunicazione ordinaria, sottolineo continuamente la dimensione poetizzante della terra che pure esiste e persiste nonostante tutto, le fondamenta stesse del mio pensiero sono sempre pesantemente poggiate su ciò che non va. E ciò che non va è decisamente troppo.
La guerra in Europa emana un’economia che ripete lo stesso modello dei conflitti precedenti. Per l’agricoltura essenzialmente vuol dire: 1)un ulteriore sfruttamento dei terreni per rispondere alle contrazioni del mercato in relazione ad alcuni beni primari (in questo caso grano e mais); 2) aumento dei prezzi dei prodotti agricoli in corrispondenza dei rincari elevatissimi dei costi di produzione, mentre la moneta perde capacità di acquisto; 3) accentuazione delle disuguaglianze nei campi in seno a quelle più genericamente sociali, ma ancora più significative se riguardanti le persone migranti nere; 4) poderosa spinta verso quel passato che non passa, fatto di lobbies dell’agrofarmaceutica e delle associazioni di categoria così vicine agli interessi della grande industria produttiva e distributiva.
Per riprendere le parole di Serpieri in Paolo Nanni a proposito del patrimonio agricolo dopo la Grande Guerra, le decisioni emergenziali portano solo ad ipotecare il futuro: il conflitto di tipo bellico è l’apoteosi della condizione d’emergenza.
Lo scorso marzo l’ISMEA, Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare, ha ben individuato il peso di Russia e Ucraina nel mercato del grano duro e tenero, del mais, dei fertilizzanti e di come la guerra influisca sugli equilibri economici italiani. Per il grano duro c’è di sicuro una grande speculazione in atto che esaspera quelle già in essere, mentre per il mais e i fertilizzanti c’è un’oggettiva difficoltà che riguarda essenzialmente le grandi agroindustrie convenzionali, ma che trasforma tutto il quadro produttivo, piccole aziende biologiche comprese: quando si verifica una contrazione dell’offerta, tutti – e dico tutti – ne approfittano per rincarare i prezzi delle materie prime o dei prodotti indispensabili nella produzione agricola, anche indipendentemente dal costo dell’energia fossile che costituisce la base dell’agricoltura supermeccanizzata e dei fitofarmaci, all’interno dei quali è massiccia la presenza di coadiuvanti e coformulanti di derivazione petrolifera. Il problema è che, mentre le grandi produzioni industriali hanno la possibilità concreta di assorbire i contraccolpi del mercato perché già esternalizzano costi ambientali e sociali e perché sono di nuovo in pole position per le erogazioni dei fondi della Politica Agricola Comunitaria, le piccole realtà si barcamenano molto peggio e sono a rischio chiusura.
L’Europa, in un battito di ciglia, ha dimenticato pratiche e promesse: stop alle rotazioni colturali, alle aree a greening, ai limiti per l’uso di agrofarmaci e fertilizzanti nelle fasce a riposo, a quelli per l’import di materie prime in deroga ai limiti massimi di residui fitosanitari. Stop allora alla strategia Farm To Fork, all’Agenda 2030, a quel chiacchieratissimo Green New Deal che, già debolissimo in partenza, oggi, se messo al paio con la peggiore PAC di sempre e le scudisciate del Copa Cogeca al parlamento europeo, è carta straccia.
Non da ultima c’è la questione dei nuovi OGM perché tali vanno chiamati gli NBT, New Breeding Tecniques. I semi NBT – chiedono le 27 associazioni che si riuniscono nella campagna “Italia Libera dagli OGM” – dovrebbero sottostare alla stessa legislazione che vieta da vent’anni gli OGM in Europa e alla sentenza (2018) della Corte di Giustizia Europea che assimila in tutto e per tutto le nuove biotecnologie alle vecchie. I contadini hanno provveduto sempre da soli al miglioramento genetico dei propri semi, adattando le popolazioni colturali alle condizioni sitospecifiche del clima e del terreno. E’ chiaro che è qui che si giocano gli interessi delle solite multinazionali: i semi Round Up Ready e Round Up Ready 2 vengono venduti con tutto il pacchetto di fitofarmaci necessari a controllare la resistenza delle supermalerbe ai semi transgenici, ma c’è molto di più. Ora che la guerra sul fronte ucraino complica la produzione di mais in Europa, da chi lo importeremo? Possiamo rivolgerci ai paesi dell’UE che hanno avuto raccolti migliori, ma non agli USA perché OGM. Mi sembra abbastanza implicito dove è possibile che vada il mercato del mais e perché ci sia tutta questa rinnovata pressione, anche da parte della Coldiretti, sul tema NBT.
Si consuma perciò, sull’altare del nuovo teatro geopolitico, il dramma delle nostre terre.
La transizione ecologica non è l’unico problema-cardine in periodo di guerra perché non può in nessun caso realizzarsi senza quella agroecologica e, quando giustamente ci battiamo per un clima fuori dal fossile, non possiamo dimenticare che sono l’agricoltura e gli allevamenti convenzionali ad essere responsabili per circa il 50% delle emissioni climalteranti. Per converso, se ci battiamo per l’agroecologia, non possiamo dimenticare che non esistono solo i conflitti su larga scala e che viviamo, ogni giorno, conflitti a bassa intensità accesi dall’ingiustizia ambientale su ogni territorio. La rovina dell’agricoltura è, in primo luogo, un certo tipo di agricoltura, ma coincide anche con le discariche e gli sversamenti abusivi della Terra dei Fuochi, le acciaierie obsolete come l’ILVA di Taranto e i 20km di raggio entro i quali non si può coltivare, le industrie chimiche come la Caffaro di Brescia e l’inquinamento da PCB che ha reso sterili e impraticabili i terreni, i gasdotti come la TAP che marciano sugli ulivi storici e il patrimonio agricolo del Salento, i treni veloci che vorrebbero sventrare la Val di Susa sottraendo acqua, smuovendo amianto, togliendo lavoro utile e magnifici paesaggi.
L’agroecologia, in entrambe le tipologie di conflitto, non è solo una delle possibili alternative all’agricoltura industriale, ma LA risposta comunitaria e rigenerativa che non può essere ridotta a mero pacchetto di conoscenze tecniche. E’, nelle parole e nell’immaginario di Miguel Angel Altieri, di Vandana Shiva e di milioni di contadini e contadine al mondo, un processo di integrazione tra esseri umani e natura. Se davvero ai piani alti lo avessero capito, non la propugnerebbero come perno della transizione.
È ovvio e ormai scontato per alcuni di noi che solo il passaggio dal paradigma meccanico-riduzionista a quello sistemico-ecologico (V. Shiva, 2017) possa garantire la sopravvivenza del pianeta. La transizione agroecologica si può fare solo se smettiamo di farla coincidere con la digitalizzazione e le biotecnologie, se togliamo aria al neolatifondismo e a quella PAC che lo favorisce per far respirare le realtà di piccola scala in cui soprattutto le donne hanno – ad ogni latitudine – un peso determinante, se impediamo alle grandi concentrazioni di potere di fare di braccianti e ambiente la propria personale pattumiera, se parliamo alle persone di sovranità alimentare e non di sovranismo, se sostituiamo la cooperazione alla competizione.
Il nostro immaginario economico è completamente sbagliato, come completamente errati sono i fondamenti biologici del processo economico. Sappiamo da molto tempo che la crescita infinita è un mito distruttivo, ma siamo davvero pronti e pronte a smontare le tesi culturali che lo supportano? E’ molto facile, per moltissime persone, comprendere che i sistemi biologici non tendono alla massimizzazione di alcuna variabile (figuriamoci di quella del profitto) ed è relativamente semplice provare a vivere quindi più sobriamente, modificando con gradualità le proprie abitudini di acquisto o quelle alimentari.
Ma cosa sappiamo e cosa facciamo in relazione ai rapporti di potere? Mauro Bonaiuti in “Bioeconomia”, una raccolta di scritti di Nicholas Georgescu-Roegen sul tema, rimarca come i sistemi biologici non adottino per sopravvivere solo comportamenti di tipo competitivo, ma che – da sistemi complessi quali sono – adottino una pluralità di strategie diverse come relazioni cooperative e simbiotiche tra le specie, argomenti già centrali in molta letteratura biologica sovietica e che oggi, per esempio, ritroviamo in numerosi studi scientifici come quelli di Suzanne Simard sullo scambio di informazioni tra caducifogli e sempreverdi in contesti di scarsità di CO2.
Possiamo allora riconoscere certamente due cose: la prima e la più lapalissiana è che, a differenza della natura, non siamo abbastanza intelligenti da rispondere con efficacia ai mutamenti di contesto o non ci troveremmo ad un pelo dalla terza guerra mondiale e dalla sesta estinzione di massa nel cuore del Wasteocene (M. Armiero, 2021); l’altra è che i tratti di quel potere che tanto condanniamo sono i nostri stessi tratti somatici.
Ci riempiamo la bocca di parole come comunità e cura, ma non comprendiamo che i processi rivestono la stessa importanza degli obiettivi e non riusciamo nemmeno lontanamente ad avere relazioni autentiche nella differenza perché non ci concediamo il tempo di “stare ed esistere” nelle relazioni. In questo vuoto praticato dalla confusione tra opinione e sapere, e tra sapere e sapere, dalla tensione tra governo e potere perfino nei rapporti personali, dalla cancellazione dell’Altro in politica che, alla maniera di Lacan, non gode affatto di buona salute, dimentichiamo che siamo esseri viventi stigmatizzati dalla profonda necessità di entrare in connessione (non in competizione) con tutti gli altri esseri viventi.
Il cibo buono, sano e giusto, in quanto frutto vivo e manifestazione dell’enorme rete neurale che collega corpi e intenzioni alla terra, potrebbe essere la chiave attraverso la quale ripensare ogni cosa.
Potrebbe se solo non ce ne privassimo in maniera così insensata e non pensassimo di avere più valore assoluto del più esile dei fili d’erba.
Miriam Corongiu
A Taranto, per l’Uno Maggio Libero e Pensante, davanti ad attivisti e attiviste di tutta Italia, decine di migliaia di persone e me stessa.