Amianto, Melpignano si ribella: “Nessuna sicurezza. Anzi”
A mettere insieme amianto e scarti del latte, il primo verrebbe reso… innocuo: ne è sicura la “Project Resources Asbestos”, lo è assai meno la gente di Melpignano (nel leccese). È infatti nel loro paesino (duemila anime) che quell’azienda vuole costruire il primo impianto d’inertizzazione dell’amianto attraverso un altro rifiuto speciale, il siero del latte, utilizzando un procedimento messo a punto dalla “Chemical center”, Università di Bologna, apparentemente semplice: una doppia immersione dei rifiuti d’amianto, per l’appunto, nel siero del latte. La prima renderebbe solubili le parti in cemento (come ad esempio per l’eternit), la seconda effettuata ad alta temperatura (centottanta gradi) distruggerebbe le fibre d’amianto.
Fin qui facile e conveniente. Anzi, la “Project Resources Asbestos” (costituita appena il 30 maggio scorso con sede a Cavallino, paesino distante ventiquattro chilometri da Melpignano) garantisce di “offrire innovazione, oltre a qualità” – scrive sul suo sito – e di essere “rapida e precisa”. Non solo, ma – stando sempre all’azienda – l’intero procedimento non prevede liberazione di fibre d’amianto nell’aria, ha come unico scarto acque scaricabili in fogna e si ottengono perfino prodotti commerciabili (idropitture e concimi).
Allora come mai i melpignanesi si ribellano alla costruzione dell’impianto al punto che la questione è approdata un mese fa anche a Montecitorio? Pare, ad esempio, che l’amianto al termine del processo non scompaia del tutto, ma se ne riduca la concentrazione dal 12% al 2%: dove finiranno, quindi, i residui? Dove verranno stoccati i filtri degli impianti che, in parte, li conterranno? E come si può avere certezza che i sottoprodotti della lavorazione siano totalmente senz’amianto?
Ancora. Uno dei punti di forza del progetto è il riciclo non soltanto del siero del latte, ma anche di altri scarti, purché sufficientemente acidi da poter essere adoperati nella lavorazione, come quelli derivanti dalla viticoltura o dalla spremitura delle olive, cioè “rifiuti alimentari tipici della regione in cui sorge l’impianto”. Tuttavia per trattare le dieci tonnellate di amianto al giorno previste dal piano aziendale, servono da cinquanta a mille tonnellate di siero di latte, di cui certo “la regione in cui sorge l’impianto non dispone”.
Non è finita: secondo gli abitanti di Melpignano e le loro associazioni neppure sarebbe chiaro come la reazione chimica tra amianto e siero di latte possa riprodursi con quegli scarti acidi, né si capirebbe quali dovrebbero essere le procedure di sicurezza nelle fasi di trasporto, stoccaggio e trattamento dei manufatti contenenti amianto.
A proposito, da Montecitorio è stato fatto sapere lo scorso 2 marzo che l’”Istituto superiore per la ricerca ambientale” (Ispra) non è mai stato coinvolto nella valutazione di quel progetto a Melpignano, e che neppure si possiedono le indicazioni tecniche per dare un parere. Tuttavia, secondo legge, l’impianto dovrebbe essere sottoposto a valutazione d’impatto ambientale dagli enti locali deputati a farlo.
Attenzione, però, il paesino pugliese è la punta del classico iceberg. L’Inail ha censito (fino al giugno 2013) la presenza sul territorio nazionale di settantatré discariche, delle quali solo diciannove in esercizio, mentre ben otto regioni (gran parte meridionali) ne sono completamente sprovviste. Un numero tanto basso di discariche (che deve far fronte a trenta milioni di tonnellate di rifiuti contenenti amianto ancora da smaltire) significa spedire i rifiuti all’estero, con conseguente innalzamento esponenziale dei costi di smaltimento. Questo da una parte. Dall’altra premono intanto un centinaio di brevetti per la denaturazione dell’amianto, nessuno dei quali mostrerebbe però adeguati standard di sicurezza e un almeno accettabile rapporto costi/benefici.
Morale? Ventitré anni dopo la messa al bando dell’amianto (nel 1992), l’Italia – primo Paese europeo a sancirla – rimane ancora alle prese con le dismissioni dei prodotti che lo contengono e impreparata ad affrontare l’emergenza sanitaria che, immancabilmente, è già scattata. Il mesotelioma maligno, che ha come causa principale proprio l’amianto (insieme a diverse patologie correlate), è in forte aumento. Considerando poi il lungo periodo di latenza tra esposizione e malattia, il picco di una della neoplasie più aggressive che si conosca è previsto per il 2022. Nel frattempo circa ottocento persone ne muoiono ogni anno, naturalmente anche a causa della burocrazia e del traffico illegale di rifiuti tossici, che continua pressoché indisturbato.
Va poi aggiunto che lo smaltimento dei rifiuti contenenti amianto (Rca) nemmeno è ancora obbligatorio, col risultato che se i costi rimarranno tanto alti (anche per assenza di discariche e adeguati impianti d’inertizzazione), quegli stessi rifiuti continueranno a essere abbandonati abusivamente in giro per campagne e città, restando esposti agli agenti atmosferici che provocano spargimento nell’aria delle loro fibre cancerogene.
Ultima annotazione. L’Italia in realtà si era dotata (nel 2012) di un “Piano nazionale amianto”, che è rimasto sulla carta. La Cigl, Cisl e Uil Piemonte, ancora nell’ottobre scorso, ribadivano come sia necessario classificare “Siti di interesse nazionale” le discariche di amianto, incentivare con sgravi fiscali lo smaltimento degli Rca e prevederne il conferimento gratuito in discarica, coinvolgendo l’Inail nelle spese di bonifica almeno di scuole e ospedali e definire un limite massimo di vita (venticinque/trent’anni) per i manufatti in amianto.
A causa della inadeguatezza delle politiche ambientali in materia, dunque, l’amianto rappresenterà un problema spinoso per moltissimi anni a venire.
Come spesso, troppo, accade, l’eredità che intendiamo lasciare ai nostri figli ha poca capacità di futuro e il mondo che vorremmo per loro, in fondo, già non esiste più.
In greco, “asbestinon” significa “inestinguibile, perpetuo”. Ma qui d’inestinguibile e perpetua c’è solo la nostra superficialità e la nostra ottusità nel credere che la tecnologia ci salverà da tutti gli errori del passato.
Miriam Corongiu